Nell'ambito della 9^ Rassegna Vigevano Centro Storico: 'MITICA - MITI E FALSI MITI in letteratura e non solo' - MI-LORENTEGGIO.COM
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Nell’ambito della 9^ Rassegna Vigevano Centro Storico: ‘MITICA – MITI E FALSI MITI in letteratura e non solo’

(mi-lorenteggio.com) Vigevano, 06 ottobre 2010 – Luoghi e personaggi fantastici dipinti e ritagliati, incollati, sovrapposti, inquietanti fotografie di mondi fatti di libri, fotografie di chi leggendo diventa emblema e sintesi universale di tutto ciò che è stato inventato e immaginato.

Le mostre:
‘Scrittura…strumento della mente’ di Giorgio Bacciocchi
‘Librellule’ di Giulia Dalaj Comenduni
‘I quattro elementi’ di Alessandra Bonelli ‘Fantamitosie’ di Mavi Ferrando

Nelle sale della Strada Sotterranea Nuova del Castello di Vigevano le 4 mostre ‘Mitici mondi’ ci immergono in una sorta di affresco delle grandi epoche dell’umanità in un sincretismo complessivo che va dal mondo primordiale e archetipico di Alessandra Bonelli a quello popolato e animato da figure mitologiche di Mavi Ferrando per arrivare, passando dal mondo finalmente umano di Giorgio Bacciocchi, a quello inquietante, ipertecnolocico e digitale di Giulia Comenduni.
La mostra si apre con un improvviso ‘dopo’ in cui le fotografie di Giulia Comenduni ci catturano in un mondo d’aria e di buio, di viaggi nello spazio di un futuro estraniante. I soggetti fotografati sono pagine di libri, ma la loro trasfigurazione è immediata e totale: astronavi o mondi di alieni, noi non esistiamo più, perchè il mondo è ormai loro. Adiacente, quasi incollato a questo ‘dopo’, come in un tutt’uno metaforico, incontriamo il ‘prima’: sono ‘I quattro elementi ‘di Alessandra Bonelli. Ovvero ci troviamo ora tra i mattoni e le fondamenta della vita stessa, alle radici della storia della futura epopea umana. Ciascun elemento occupa una parete di 4 metri, separato dagli altri vive una propria vita interna, che ribolle, tende a trasformarsi, ma ancora non si mescola. E’ l’energia allo stato primordiale, prima della scintilla della vita. Sul fondo si scorgono le ‘Fantamitosie’ di Mavi Ferrando che ci raccontano di figure fantastiche, di mostri, riti propiziatori, luoghi sacri, processioni. Una rivisitazione contemporanea delle più antiche credenze create della fantasia umana. Le sculture si aggregano in forme installative per raccontarci delle storie che tanto si sono impresse nell’inconscio collettivo di tutti i tempi. Passando nella attigua sala arriviamo in un tempo contemporaneo, lì ci sono le facce di oggi, i luoghi di oggi, c’è il mondo umano ripreso dal fotografo Giorgio Bacciocchi: visi assorti che rivangano e rimescolano tempi ed epoche nell’atto del leggere. Sono la fantasia, le fantasie degli scrittori, pensatori, filosofi, teologi, scienziati, che scorrono in questi sguardi concentrati e lontani. Di fronte la videoproiezione in rapida sequenza dei circa diecimila scatti che Giulia Comenduni ha realizzato a partire dal libro inteso come oggetto. Sono forme arcuate, spiraloidi, oblique, svettanti, arrotolate, sfuggenti che danzano sullo schermo come in un cartone animato a scatti distanziati. E’ il mondo dei poi, di un mondo senza noi, ma il senso è sempre quello: cosa c’è oltre di noi? Loro?

inaugurazione giovedì 14 ottobre alle ore 18,30 con aperitivo

orario: martedì-venerdì 16,00 alle 19,30 – sabato e domenica 10,00 -12,30 / 16,00 -19,30

MITICI MONDI

“Conosco i segni dell’antica fiamma, ma un baratro si schiuda e m’inabissi, l’onnipotente genitor mi scagli con la folgore all’ombre, all’ombre smorte nella profonda sotterranea notte, prima che mai ti vìoli mia fede, prima che infranga la tua sacra legge”. (Virgilio)
Credere in qualcosa che dia licenza etica all’esistenza dovrebbe essere il principio per ogni passo, ogni apertura di occhi la mattina dopo un lungo e turbolento sonno.
Il prestare fede all’esistenza di un’etica inscalfibile nei comportamenti propri e sociali è portamento fondamentale di una polis ricca di pensiero, filosofia, sapere, comprensione conoscenza e integrità morale senza vili compromissioni e complicità di bassa specie.
Filo conduttore di questi quattro artisti è l’eticità come motore della propria ricerca esistenziale ed estetica, forse fragile, a volte forte, ma pienamente vera.
Ricerca nelle profonde radici della verità che contraddistingue tutte le storie arcaiche, presenti e futuribili.

“I quattro elementi” di Alessandra Bonelli: mondi atavici fatti di carta e carta velina, riporti fotografici, pastellature e linee leggere tracciate con le matite.
L’artista, attraverso un assiduo lavoro di scomposizione e ricomposizione, ricostruisce i primitivi luoghi degli elementi dove l’acqua non era con la terra e la terra non era con l’acqua. E dove il fuoco passava generando rovine e ceneri e lave annerite e sacri templi tracollati. E dove il cielo dell’aria e delle stelle, casa del vento e di tanti dèi, era inviolato e comunque leggendario.
Le rovine sono indicate soprattutto come simboli di terra, nella loro ricomposizione ritrovano il proprio spessore, impossibili da cancellare, ma agenti probatori per ricostruire.
L’aria si riassume in cieli leggeri inseriti in triangoli di alluminio con tratteggi e campiture che restituiscono il movimento della brezza e del vento, per divertirsi poi nei pesi e nelle misure dei giorni della creazione divina.
L’acqua inserita nei quadrati o triangoli della vita prende massa e portata, a volte esile tratto, a volte elegante acquitrino dove il piccolo principe nasce come fossile vitale, o pietra della sapienza.
Il fuoco è imbrigliato in piccole teche-quadro, acutissimo inscatolamento del fuoco rigeneratore, carte, cartoni di diverse dimensioni, trielina cocente ubriaca di tinte rosso fuoco. Attenzione a rompere il vetro, potrebbe essere insaziabile.
L’intera storia della creazione del mondo scorre nel ritmo geometrico di queste opere dal contorno regolare, quasi formelle o icone di una storia figurata. Quadrati, triangoli, rettangoli diventano contenitori di una materia frastagliata e sofferente in via di autogenerazione, un sottile ermetismo si annida dentro le singole opere chiedendoci di scavare, analizzare, capire.
Il poi, la fusione di questi quattro elementi, non ci è dato di vederlo, l’origine è pura materia grezza.
Come la fine.

“Fantamitosie” di Mavi Ferrando ovvero fantasie sul mito. Sono soprattutto delle messe in scena, fondali di rappresentazioni attuate con un linguaggio di tipo installativo, i mondi del mito sono evocati da ferree sculture, da umani animali semi-divini che si divertono e si distraggono in invisibili templi dalle colonne marmoree o in ampie radure incontaminate frequentate da eroi, strani dèi e muscolose guerriere. C’è una sorta di paradiso terrestre in cui la gioia si slancia e balza nell’aria e c’è un riverito sacro fuoco giallo che forse tutto può.
Mavi Ferrando, nella via sotterranea del Castello Sforzesco Visconteo, provoca, scorge, inchioda e schiude le porte inviolabilli dei mondi antichi. Convoca Sibille scultoree a forma di cavallo bianco e spinge Diana e le Baccanti a uno splendido isolamento formale, ad una fissità temporale e corporale, colorandole di nero, rosso e blu .
A queste forme baccanti, mobili e insieme immobili, manca l’apice estremo del corpo, i fluidi capelli, il viso angelico: esiste solo il vuoto, inferto da una decapitazione larga dieci centimetri. Eppure quasi non si percepisce, è come se ci fosse una sorta di continua identità visiva che travalica secoli e millenni, e noi fermi, ne vediamo comunque la multiforme molteplicità dei visi.
“Guidava Pentesilèa, lo stuolo delle Amàzoni dagli scudi lunati, infuriando entro la mischia innumere: guerriera che aveva succinto in alto, sotto il seno, un bel cingolo d’oro e che fanciulla osava misurarsi con gli eroi”. (Virgilio)
Mavi Ferrando ci sbalza in questi titanici mondi, fatti di tempeste, di turbinii, di troni antropomorfi, vegetali con il chiacchiericcio vitale delle foglie in fila indiana, dove Nettuno scaccia i venti nel loro antro e placa il mare.
E quelle strane divinità in legno sagomato, gambe umane ginocchia ben evidenti, coda all’insù, capelli ricci con corona aurea annegata nel legno, che giocano rincorrendosi a nascondino?
Che dire, geniale.

“Librellule” di Giulia Dalaj Comenduni. Un neologismo che è già sintesi esplicita del contenuto.
Chiamarle fotografie forse è un diminutivo. Sono opere che vengono dallo scuro della notte, dopo giorni e gironi di cammino in strade deserte, buie, con la polvere che ti prende la gola e non riesci a fiatare.
Sono labirinti conici senza uscita, sono trappole vitali attrattive che ti inducono a sprofondare in abissi sconosciuti incitando il respiro affannoso.
Li guardi transitare tra le tue pupille con la loro apparenza d’innocua danza, librellule, ma è inutile soffermarsi, sono già entrati nella tua pshiche come tarli d’ansia senza ossigeno. Deflagranti opere solcate da cospetti tumefatti, come ricordi di tragedie, affanni non dicibili, incorporei, scavati nel sangue triturato dagli eventi. Il pretesto, le pagine fotografate, l’intenzione cosciente per cui sono state realizzate a quel modo, con quelle luci taglienti e quelle inquadrature, è decisamente ribaltato dal risultato: sono lividi che ingombrano i globi celesti e finiscono in nascondigli scuri di riti tribali, sono guizzi di luce nel buio ancestrale di una pancia melanconica.
“Tant’è amara che poco è più morte, ma per trattar del ben ch’io vi trovai, dirò de altre cose ch’io v’ho scorte”. (Dante – Inferno)
Lo scuro profondo e affamato della fotografia lascia visibile, fuggitiva e in agguato la luce longilinea che prende volume e disinvolto movimento. Mondi alieni che ci alitano sulla testa forse già con le fauci spalancate.
Il vero del sè che rabbrividisce la pelle. Ognuno di noi scrive le pagine dei propri alberghi, e i libri se li porta sempre con sè . C’è un futuro in cui i libri di carta saranno annientati da eserciti armati di e-boock, l’artista compie un quasi disperato tentativo di ibernarli per sempre, fissarli in guizzanti attimi di vita.
La Dalaj Comenduni ci comprime nella videoproiezione 10.000 scatti fotografici, alternati a silenzi di due secondi ciascuno, la sua filosofia: i libri volano e respirano.

Giorgio Bacciocchi. Non bisogna ricercare continuamente cose strane perché la quotidianità già imbottisce la vita.
Queste fotografie sono dei passaggi di vita normal-pacifica dove nulla turba i protagonisti lettori. Ritratti in cui gli occhi non guardano mai in macchina; primi piani, piani americani, figure intere, campi lunghi, i protagonisti fissano tutti una pagina scritta, attenti, eleganti, morigerati e rispettabili. Possono essere casalinghe, preti, pretesse, studenti, biologhe abbarbicate alla fontana della piazza acciottolata, ognuno è rappresentato con un libro tra le mani o le gambe.
Soggetti senza nome, passeggiatori della città, ritratti attratti o scoperti a frugare nei libri: la conoscenza è una ricerca instancabile. Articolano il loro silenzio fermato dalla fotografia sull’arricchimento che ne deriva, e la compostezza e la posa esteriore diventano io-narranti di un corale happening teatrale.
La singolarità concettuale di questa operazione emerge dalla ripetitività fondante dell’insieme: non più sole isolate fotografie, ma racconti impliciti, indotti, perché piano piano le immagini strappano parole e cominciano a scovare le infinite storie scritte dai narratori, dai poeti, dai pensatori.
E l’eterogeneità dei personaggi nell’univocità dell’azione diventa emblematica di una cultura che si fa universale.
Non più un tempo, un’epoca definita, ora queste si sovrappongono, Omero con Montale, Platone con Bruno Vespa. Coacervo, frullato, ma soprattutto sincretismo universale, il tutto, ora.
Duchi e Duchesse toccavano i luoghi delle riprese, procedevano in quella bellissima piazza, vestiti di raso morello e broccato d’oro legato con seta candida e manto cremisi foderato di ermellino. Futuro, presente e passato.
I mille volti, di una città, dalla più bella piazza del mondo.
Le danze siano aperte.

Redazione

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