Il Generale Giorgio Battisti ci racconta la sua missione in Afghanistan

    0
    363
    (mi-lorenteggio.com) Milano, 27 aprile 2014 – Dopo un anno a Kabul con l’incarico di Capo di Stato Maggiore nella missione International Security Assistance Force (ISAF), il Generale di Corpo d’Armata Giorgio Battisti è tornato nella caserma “Ugo Mara” di Solbiate Olona per riprendere il comando del Corpo d’Armata di Reazione Rapida della NATO in Italia (NATO Rapid Deployable Corps – Italy, NRDC-ITA).

    Prima di procedere all’intervista, presento il Generale Battisti.
    Nato a Mantova l’11 ottobre 1953, ha frequentato negli anni 1972 – 74 i corsi regolari dell’Accademia Militare di Modena e della Scuola di Applicazione di Torino (1974 – 76). Promosso Tenente di Artiglieria da Montagna, ha ricoperto l’incarico di Sottocomandante della 40ª batteria del gruppo “Pinerolo” della Brigata “Taurinense” . Con il grado di Capitano ha comandato dal 1980 al 1982 la 29ª Batteria del gruppo “Asiago” della Brigata ”Tridentina” e dal 1982 al 1987 la mitica 40ª batteria del gruppo “Pinerolo”, unità inserita nel gruppo tattico “Susa” per le esigenze dell’AMF (L), con la quale ha preso parte a 21 esercitazioni internazionali in ambito NATO. Ha comandato il gruppo “Conegliano” della “Julia” e, successivamente, promosso Colonnello, il Reggimento Allievi dell’Accademia Militare di Modena, nel biennio 1997 – 99.

    Ha ricoperto diversi incarichi allo Stato Maggiore dell’Esercito, tra cui Ufficiale addetto all’Ufficio per l’Informatica (1988 – 90), Capo Sezione di Stato Maggiore dell’Ufficio del Sottocapo di SME (1991 – 93), Capo Sala Operativa dell’Ufficio Operazioni (1994 – 97) e Capo Ufficio Piani e Situazione (1999 – 2001). Ha frequentato i corsi previsti per la specialità alpina, il 112º corso di Stato Maggiore e il 112º corso Superiore di Stato Maggiore.
    Conoscitore della lingua inglese e della lingua francese, è laureato in Scienze Strategiche ed è in possesso del Master di II livello sempre in Scienze Strategiche.

    Ha partecipato alle operazioni in Somalia (1993) e in Bosnia (1997). Dal 28 dicembre 2001 al 9 maggio 2002 è stato il primo Comandante del Contingente Italiano della missione ISAF a Kabul. Promosso Generale di Brigata, il 25 marzo 2002, è stato Vice Comandante e poi Comandante della Brigata “Taurinense”. Nel 2003, è stato il primo Comandante del Contingente Italiano in Afghanistan, sia per la missione Nibbio 1 (nell’ambito dell’Operazione “Enduring Freedom”) sia per la missione ISAF. Ceduto il comando della “Taurinense” (31 ottobre 2003) è tornato a Roma come Vice Capo e quindi Capo Reparto Affari Generali e Portavoce dello Stato Maggiore dell’Esercito. Promosso Generale di Divisione il 28 febbraio 2006, dal 5 luglio 2007 ha ricoperto l’incarico di Italian Senior Rappresentative e Deputy Chief of Staff Support del Quartier Generale ISAF X, in Afghanistan, sino al 12 dicembre 2007. Dal 31 maggio 2008 è stato Capo di Stato Maggiore del Comando delle Forze Operative Terrestri, in Verona. Il 1° gennaio 2011 è stato promosso Generale di Corpo d’Armata e dal 30 giugno dello stesso anno ricopre l’incarico di Comandante di NRDC-Italy. Dal gennaio 2013 al gennaio 2014 è tornato per la quarta volta a Kabul per svolgere l’incarico di Italian Senior National representative e Capo di Stato Maggiore di ISAF. In questo periodo, il Generale Battisti ha guidato lo staff della missione internazionale, composta da personale proveniente da ben 49 nazioni, nella delicata e fondamentale fase della transizione della responsabilità del paese alle forze di sicurezza afgane e in cui la missione si avvia alla fase finale prevista a dicembre 2014.
    Sposato con la Signora Simonetta, è padre di quattro figli, Alessio 31, Umberto 29, Filippo 28 e Cecilia 14.

    Gli afgani hanno desiderio di uscire da questo periodo buio che vede il loro Paese interessato da oltre trentacinque anni di conflitti?

    Ritengo proprio di sì. Non bisogna dimenticare com’era la situazione della società afgana nel 2001 dopo la caduta del regime talebano.
    A titolo d’esempio, cito i risultati più significativi raggiunti nel corso degli ultimi dodici anni. Oltre 7.000 insorti hanno deposto le armi e sono rientrati nella società attraverso un apposito programma di reinserimento. La crescita interna è la più rapida tra i Paesi dell’Asia del Sud nei settori dello standard di vita, della salute, dell’istruzione e della formazione. Più di un terzo della popolazione usufruisce della rete energia elettrica. Le maggiori città hanno elettricità per ventiquattro ore il giorno. Sono state costruite strade asfaltate per circa 32.000 chilometri (nel 2001 i km erano circa 2.500).

    Dal 2002 sono stati costruiti più di 4.500 edifici scolastici, formato più di 175.000 nuovi insegnanti (di cui il 30% di sesso femminile) e incrementato quasi del 50% il rateo d’iscrizione alla scuola elementare. Quasi otto milioni di bambini frequentano le scuole elementari (2,5 milioni sono le ragazze, pari al 37% circa). Nel corso del 2009 circa 80.000 studenti (il 26% ragazze) hanno ottenuto il diploma di scuola media superiore, mentre nello stesso anno si sono laureati circa 9.800 giovani.
    La percentuale degli analfabeti, pari al 71,9% della popolazione nel 2006, è in costante diminuzione, grazie anche ai corsi di alfabetizzazione per adulti (frequentati dal 2007 a oggi da circa 250.000 persone).
    L’accesso all’assistenza sanitaria di base è passato dal 9% nel 2000 a circa 90% nel 2013; la percentuale di medici è decisamente aumentata (0,2 medici ogni 1.000 abitanti). La mortalità materna si è ridotta del 15%; la mortalità infantile è diminuita del 35%. Si è raggiunta una sensibile riduzione delle malattie endemiche (tubercolosi, malaria, morbillo, difterite, pertosse e tetano) grazie ai programmi internazionali di immunizzazione/vaccinazione (il 90% dei bambini di età inferiore a un anno è stato vaccinato contro morbillo, difterite, pertosse e tetano); l’aspettativa di vita appare in significativa controtendenza, pari a 48,5 anni per gli uomini (dato 2011; nel 2009 era di 47 anni) e di 48,8 per le donne (dato 2011; nel 2009 era di 45 anni).
    Il 71% della popolazione possiede un cellulare; il 52% dispone di un televisore e l’8% ha accesso a Internet. Sono presenti 175 stazioni radio, settantacinque canali televisivi, agenzie di stampa e centinaia di pubblicazioni, inclusi sette quotidiani.

    Esiste ancora un forte divario tra il livello di sviluppo raggiunto nelle principali città e le aree rurali (che costituiscono il 70% del Paese) per le difficoltà connesse con la compartimentata morfologia del territorio, la carenza di una buona rete stradale e, talvolta, per una certa resistenza all’innovazione legata a radicate tradizioni socio-culturali. La rapida diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, e in particolare la radio, contribuisce a ridurre progressivamente questo divario di “conoscenza”.
    Ritengo comunque che la soluzione politica sia la chiave per una stabilità sostenibile, per la sicurezza e per la prosperità economica dell’Afghanistan e di tutta la Regione.
    La Comunità Internazionale ha fornito i mezzi e le capacità per conseguire questi obiettivi: ora devono essere le istituzioni afgane a operare in modo serio e cosciente per guadagnarsi la fiducia dei propri cittadini.

    Le Elezioni Presidenziali del 2014 sono importanti?

    Le Elezioni Presidenziali del 2014 sono la più importante sfida di questi ultimi tredici anni della vita politica dell’Afghanistan e della Comunità Internazionale: una leadership stabile, eletta attraverso elezioni trasparenti, credibili, tempestive è di fondamentale importanza per il futuro del Paese e della Regione.
    In conclusione, sono fiducioso nella capacità e nel desiderio di questo Paese di lasciarsi alle spalle decenni di guerre e di terrore, trovando una soluzione afgana ai problemi afgani, nel pieno rispetto della sovranità, della cultura e delle tradizioni locali.
    Abbiamo avuto difficoltà nel passato e sono stati commessi errori, stiamo fronteggiando un presente complesso e, sono sicuro, ci saranno ancora problemi e contrattempi nel futuro.

    I giovani, che rappresentano oltre il 60% della popolazione, ricoprono un ruolo fondamentale e saranno il “mezzo” per far si che l’Afghanistan non possa ritornare nel periodo degli “anni bui” dei talebani.

    Generale, quali sono i suoi sentimenti nei confronti del popolo afgano?

    Questo è la mia quarta missione in Afganistan, la prima iniziò nel dicembre 2001: l’aspetto che mi colpisce più di tutto è quanto sia cambiato il Paese. Rimangono ancora sfide difficili da affrontare, e in alcune zone la situazione non è stabile per l’aggressiva presenza degli insorti, ma ritengo si stia procedendo nella giusta direzione: i miglioramenti si notano in tutti i settori della società.
    Vi è un chiaro progresso nel processo di stabilizzazione nazionale. Allo stesso tempo persistono evidenti criticità quali la lotta al terrorismo, alla corruzione e alla proliferazione dei narcotici, il rientro dei rifugiati, così come lo sfruttamento delle opportunità nel commercio, infrastrutture e connettività, che sono problematiche all’attenzione di tutti.
    Un anno di Afghanistan mi ha insegnato che c’è molto di più di quello che i media occidentali fanno sapere: ci sono bellezze naturali, scuole, università, ospedali, ferrovie, monumenti, tecnologia e gente allegra che accoglie il prossimo con un grande sorriso. Ho avuto modo di visitare alcuni dei posti nei quali noi italiani abbiamo fatto del bene e gettato le basi per un futuro migliore per chi ci vive.
    Porterò con me mille emozioni, tanti ricordi e l’amicizia di alcune persone speciali come ad esempio Ishaq, uno dei local workers che collabora con gli italiani a Kabul fin dal 2001.
    I ricordi che ho portato e porterò sempre con me in queste quattro missioni sono tanti, ma più di tutti rimarranno impressi nella mia memoria i paesaggi sconfinati, gli occhi delle bambine e il volto e i nomi dei nostri Soldati caduti per l’Afghanistan.

    Quanti soldati italiani sono morti per la libertà?

    Purtroppo la Coalizione che opera in Afghanistan ha subito molte perdite. L’Italia, in particolare, piange cinquantatré militari italiani caduti in questi dodici anni di missione.
    Il sacrificio di tanti uomini e donne in uniforme è servito, e serve, a far sì che la politica potesse prendere il posto della forza per dare un futuro migliore a questo Paese.
    Non dobbiamo dimenticarci com’era la situazione in Afghanistan dodici anni fa. Chi ha la memoria corta può andare a leggersi il romanzo “Il cacciatore di aquiloni” di Khaled Hosseini. All’epoca una donna accusata d’adulterio veniva lapidata in uno stadio senza remore. Le studentesse universitarie venivano cacciate da scuola o sfregiate con l’acido. Una meraviglia archeologica come i Buddha di Bamiyan venivano presi a cannonate perché considerati blasfemi. Non esistevano i diritti umani. La musica e lo sport erano banditi. Oggi tutto questo è cambiato e le condizioni sono completamente differenti. Ci sono accordi internazionali. C’è un governo legittimo, eletto dal popolo. C’è una forte presenza e attenzione della comunità internazionale, composta da almeno ottanta Paesi.
    Vorrei, infine, ricordare le famiglie di coloro che hanno perso la vita nell’espletamento del proprio dovere ed esprimere loro la mia più profonda vicinanza e cordoglio. I familiari, capaci di sopportare un dolore indescrivibile con una straordinaria dignità sono i veri eroi.

    Quali sentimenti la legano ai suoi soldati?

    Oltre venti anni di ininterrotte operazioni all’estero hanno determinato una significativa crescita professionale delle nostre Forze Armate, soprattutto per l’Esercito che sempre sostenuto il peso maggiore di questi impegni.
    Le attuali missioni internazionali presentano connotazioni “nuove”, non riscontrabili in nessuno scenario di crisi del passato, e hanno chiesto alle nostre Forze Armate di confrontarsi con realtà del tutto diverse rispetto a quelle tipiche del confronto tra i due blocchi contrapposti.
    Ritengo di poter affermare, senza timore di essere smentito, che le F.A. italiane operano all’estero alla pari degli altri eserciti occidentali in termini di professionalità, preparazione, qualità degli equipaggiamenti e materiali, malgrado finanziamenti sempre più oculati e contenuti.
    I nostri comandanti e soldati sono in grado di operare tranquillamente con i loro colleghi stranieri grazie alla conoscenza e applicazione delle consolidate procedure NATO e a una padronanza della lingua inglese sempre più diffusa (specie tra i giovani ufficiali).
    I militari sono in grado di assolvere i compiti più disparati e spesso diversi da quelli tradizionali, in relazione al contesto nel quale si svolge la missione, di norma caratterizzato da un iniziale clima di grandissima tensione e dall’assenza, almeno nei primi tempi, di organismi internazionali in grado di colmare il vuoto di potere determinatosi al termine del conflitto e di ripristinare una minima struttura politica e socio–economica. Ciò ha richiesto che i soldati, oltre alla capacità di combattere, debbano possedere una vasta gamma di qualità per essere in grado di assolvere molteplici pressanti e difficili ruoli, dal diplomatico al poliziotto, dal conciliatore all’infermiere, dal direttore di ospedale all’amministratore locale, in scenari caratterizzati da elevato degrado sociale, politico istituzionale in cui, di norma, le uniche forze organizzate sono quelle militari.
    I nostri Soldati hanno dimostrato “sul campo” di essere veramente dei bravi professionisti, motivati e pronti ad assolvere con tempestività, determinazione e coraggio i compiti che la Nazione gli affida. Essi dispongono di un importante livello di tecnologia, non sicuramente di quantità ma di qualità, che sanno usare correttamente per abbassare il livello del pericolo, per tenere sotto controllo le situazioni, per rendere più efficaci le loro reazioni.
    A tutto ciò, ma non per ultimo, queste missioni, venendo a contatto con persone di tradizioni, lingue, religioni diverse, hanno permesso un’incredibile crescita culturale dei nostri uomini e donne.
    Gli uomini e donne in divisa rappresentano benissimo l’Italia e il loro contributo, anche in termini di vite umane, è riconosciuto da tutto il personale dei quarantanove Paesi della Colazione.
    In oltre dodici anni, l’Italia è arrivata a schierare in Afghanistan fino a 5.000 soldati (oggi circa 2.800) con una presenza a ogni livello delle strutture di comando ISAF.
    L’impegno italiano è anche testimoniato dai numerosi progetti completati: oltre al completamento di un ospedale e del carcere femminile di Herat, ottantuno scuole, quarantanove strutture sanitarie, un ospedale pediatrico e un centro giovanile, gli Italiani hanno restaurato venti edifici pubblici e costruiti 715 pozzi, 25 strade, 20 canali e ponti in Karta e Zirko Valley.
    Non posso che essere orgoglioso della professionalità dei nostri soldati che operano con la dovuta determinazione e prontezza, frutto di un valido addestramento in Patria, mai disgiunte dal rispetto della cultura, delle tradizioni e degli usi e costumi locali.

    Come si sta concretizzando l’impegno della Comunità internazionale nel settore del processo di transizione che prevede il passaggio nelle mani degli Afghani?

    L’Esercito e la Polizia dimostrano ogni giorno maggiore capacità di affrontare le sfide della sicurezza. Hanno sempre più fiducia in loro stessi e operano con riconosciuto coraggio per guadagnare la fiducia della popolazione, nonostante le pesanti perdite che subiscono ogni giorno.
    La loro dedizione contrasta efficacemente la campagna di terrore degli estremisti che si oppongono al processo di riconciliazione e stabilizzazione nazionale.
    ISAF è impegnata da tempo per sostenere le ANSF nel superare i gap capacitivi che le Forze di Sicurezza Afgane, trattandosi di Forze Armate “molto giovani”, presentano ancora in alcuni campi quali la capacità di leadership dei comandanti, l’intelligence e il supporto aereo. Queste criticità non consentono loro il pieno e autonomo svolgimento delle attività operative.
    In tutta la regione vi è un crescente riconoscimento della necessità di un impegno costruttivo. La natura transnazionale di sfide importantissime per il futuro dell’area sembra essere stata recepita dalle differenti leadership della Regione. Fattori quali l’instabilità, la lotta alla corruzione, al terrorismo e alla proliferazione dei narcotici, gli spostamenti della popolazione, così come lo sfruttamento delle opportunità nel commercio, infrastrutture e connettività sono punti sull’agenda di tutti.

    Ci sono ancora delle sfide da affrontare?

     
    L’evoluzione dell’intervento in Afghanistan ha diversificato gli impegni dei singoli alleati sul campo e ha visto il passaggio dal peace-keeping alla contro-insorgenza che ha comportato un salto concettuale e operativo.
    ISAF ha fatto tanto per l’Afghanistan. Molto rimane da fare ed è per questo che la nuova Missione “Resolute Support” avrà una posture differente. Prendo in prestito le parole del Segretario Generale uscente della NATO, Anders Fogh Rasmussen, che parlando di “Resolute Support” ha parlato di una pagina nuova nei rapporti tra l’Afghanistan e l’Alleanza Atlantica. Non sarà un’altra missione Isaf con un nome diverso”, ma di una missione differente e significativamente più piccola, in termini di uomini impegnati sul terreno, che segue un limitato approccio regionale. I numeri dei soldati che resteranno in Afghanistan ancora non sono chiari perché saranno decisi dai governi nazionali dei Paesi che ne vorranno far parte, di comune accordo con il Governo Afgano. Per ora c’è solo la certezza che “Resolute Support” avrà gli obiettivi di addestrare, consigliare e sostenere le Forze di Sicurezza afgane, puntando al rafforzamento delle istituzioni nazionali, come i Ministeri deputati alla sicurezza, e le forze di Sicurezza Nazionale come l’Esercito e la Polizia.
    Alle volte mi è capitato di leggere che la NATO si ritira dall’Afghanistan. Al riguardo vorrei precisare che il termine ritiro non è corretto. E’ più appropriato parlare di cambio della natura della missione. In quest’ottica, si dovrebbe utilizzare la più idonea espressione di cambio (shifting) della missione.
    Ogni considerazione sulla parola “ritiro” evoca esperienze passate dell’Afghanistan che non sono pertinenti alla realtà attuale del Paese e a quanto la comunità internazionale ha posto in essere e sta tuttora offrendo con le sue molteplici capacità. I paragoni storici sono sempre pericolosi. Nel caso dell’invasione russa, ad esempio, si può parlare di ritiro dal Paese occorso poiché si trattava di un intervento unilaterale di un solo Paese. Oggi le condizioni sono completamente differenti. La presenza della comunità internazionale, composta da almeno 80 Paesi, è stata richiesta dalle Autorità politiche afgane. Dunque, nessun ritiro, ma una graduale e concordata rimodulazione della missione e delle forme di supporto per meglio permettere la crescita delle varie componenti la società afgana, non solo nelle funzioni militari.
    L’Afghanistan sta compiendo oggi molti sforzi per recuperare gli effetti di trentacinque anni di conflitti. C’è ancora molta strada da percorrere prima di poter recuperare il ritardo con il resto del mondo, ma i miglioramenti si vedono.
    Le elezioni presidenziali tenutesi il 5 aprile scorso sono un banco di prova importantissimo per la società afgana perché avere una leadership stabile, eletta attraverso elezioni trasparenti, credibili, tempestive e in conformità con la Costituzione è di fondamentale importanza per il futuro del Paese e della regione. Come noto, non c’è stato un candidato che abbia ricevuto più del 50% dei voti e quindi sembra inevitabile che si vada al ballottaggio tra Abdullah Abdullah e Ashraf Ghani che nel voto del 5 aprile hanno ottenuto i suffragi maggiori. I risultati definitivi sono attesi per il 14 maggio.

    Principia Bruna Rosco

    LASCIA UN COMMENTO

    Per favore inserisci il tuo commento!
    Per favore inserisci il tuo nome qui