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Patrono di Milano. Delpini: “Tocca a noi, tutti insieme”: il testo integrale del discorso alla città e alla diocesi

Milano, 4 dicembre 2020 – “Tocca a noi, tutti insieme”: questo il titolo del Discorso alla Città e alla Diocesi che l’Arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, pronuncerà questa sera alle ore 18 nella Basilica di Sant’Ambrogio, durante i Vespri per la solennità del santo patrono della città.

Le altre celebrazioni dei prossimi giorni

Nei prossimi giorni l’Arcivescovo Delpini presiederà la Messa nella Quarta di Avvento, domenica 6 dicembre alle ore 17.30 in Duomo, il Pontificale nella solennità del Santo Patrono lunedì 7 dicembre alle ore 10.30 nella Basilica di Sant’Ambrogio, il Pontificale nella solennità dell’Immacolata Concezione, martedì 8 dicembre alle ore 11 in Duomo.

Le celebrazioni in Duomo (IV di Avvento e Immacolata) saranno trasmesse in diretta su ChiesaTv (canale 195 del digitale terrestre), Radio Mater, www.chiesadimilano.it e youtube.com/chiesadimilano

“Un messaggio importante e significativo, che evidenzia in maniera netta ed inequivocabile il richiamo al superamento dell’individualismo e dell’ideologismo e a essere sempre più una comunità”. Così il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, definisce le parole pronunciate oggi da Monsignor Mario Delpini, Arcivescovo di Milano, durante il ‘Discorso alla Città’ presso la Basilica di Sant’Ambrogio.

“Da parte nostra – prosegue il presidente Fontana – questi requisiti non verranno mai meno e, anzi, ci impegneremo ancor con maggior vigore per riconoscerci in quel ‘Eccoci! Tocca a noi!’ invocato da Monsignor Delpini. Con una missione: sostenere chi è in difficoltà, senza mai lasciare indietro gli ultimi”.

“Solidarietà e impegno comune – conclude il governatore Fontana – devono sempre essere il filo conduttore di una comunità, soprattutto in un momento storico difficile come quello che stiamo vivendo”.

Tocca a noi, tutti insieme

 

Lettura del profeta Geremia

(Ger 32,1-3.6-9.13-15)

 

Parola rivolta a Geremia dal Signore nell’anno decimo di Sedecìa, re di Giuda, cioè nell’anno diciottesimo di Nabucodònosor. L’esercito del re di Babilonia assediava allora Gerusalemme e il profeta Geremia era rinchiuso nell’atrio della prigione, nella reggia del re di Giuda, e ve lo aveva rinchiuso Sedecìa, re di Giuda, con questa imputazione: «Perché profetizzi in questi termini? Tu affermi: “Dice il Signore: Ecco, metterò questa città in potere del re di Babilonia ed egli la occuperà”». […] Geremia disse: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: Ecco, sta venendo da te Canamèl, figlio di tuo zio Sallum, per dirti: “Compra il mio campo, che si trova ad Anatòt, perché spetta a te comprarlo in forza del diritto di riscatto”. Venne dunque da me Canamèl, figlio di mio zio, secondo la parola del Signore, nell’atrio della prigione e mi disse: “Compra il mio campo che si trova ad Anatòt, nel territorio di Beniamino, perché spetta a te comprarlo in forza del diritto di riscatto. Compralo!”. Allora riconobbi che questa era la volontà del Signore e comprai da Canamèl, figlio di mio zio, il campo che era ad Anatòt, e gli pagai il prezzo: diciassette sicli d’argento. […] Poi davanti a tutti diedi a Baruc quest’ordine: “Così dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele: Prendi questi documenti, quest’atto di acquisto, la copia sigillata e quella aperta, e mettili in un vaso di terracotta, perché si conservino a lungo. Poiché dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele: Ancora si compreranno case, campi e vigne in questo paese”».

Il profeta, su ispirazione del Signore, compie un gesto che poteva essere interpretato come sconsiderato: mentre si profila la caduta di Gerusalemme, la deportazione del popolo, la dominazione babilonese, quindi la catastrofe nazionale che cancella il regno di Giuda, Geremia firma un contratto per acquistare un campo, fa un investimento sul futuro.

Proprio questo episodio mi ha convinto a proporre il “discorso alla città”, come viene chiamato con un po’ di retorica: proprio quest’anno, proprio in questa situazione, in occasione della festa di sant’Ambrogio, patrono della Chiesa ambrosiana, della città di Milano e della regione Lombardia.

emergenza spirituale

Ovviamente il confronto con i tempi di Geremia è del tutto sproporzionato. Milano ha visto momenti assai più drammatici e disastri molto più sconvolgenti di quelli che stiamo vivendo.

Mi sembra, però, che oggi sia diffuso un atteggiamento più incline alla rinuncia che alla speranza, a lasciare la terra incolta che a predisporla per la semina.

Ho l’impressione che, insieme alla prudenza, alla doverosa attenzione a evitare pericoli per sé e per gli altri e danni al bene comune, ci siano anche segni di una sorta di inaridimento degli animi, un lasciarsi travolgere dal diluvio di aggiornamenti, di fatti di cronaca, di rivelazioni scandalose, di strategie del malumore, di logoranti battibecchi.

Proprio questi sintomi inducono a formulare una diagnosi definibile come “emergenza spirituale”. Con ciò si intende lo smarrimento del senso dell’insieme che riduce in frantumi la società e l’identità personale e permette così ai diversi frammenti di imporsi e dominare la scienza. Ne deriva la condizione di aridità degli animi che sono come assediati dalle emozioni, dalle apprensioni, dalle notizie della pandemia. Non riescono a pensare ad altro, non possono parlare d’altro. Il resto del mondo e dei temi decisivi per la vita delle persone, delle comunità, del pianeta è emarginato, ha perso interesse. Come se – per riferirmi ancora al testo di Geremia – l’assedio del re di Babilonia che minaccia la città impedisse ogni altro argomento, ogni speranza, ogni preghiera

elogio di chi rimane al proprio posto

Vorrei riconoscermi nel popolo delle donne e degli uomini di buona volontà, di quelli che sono rimasti al loro posto, che hanno sentito in questo momento la responsabilità di far fronte comune, di moltiplicare l’impegno.

Trovo pertanto giusto fare l’elogio di quelli che rimangono al loro posto: grazie a loro la città funziona anche sotto la pressione della pandemia. Rimangono dove sono, come una scelta ovvia; affrontano fatiche più logoranti del solito, come una conseguenza naturale della loro responsabilità. Rimangono al loro posto e fanno andare avanti il mondo: gli ospedali funzionano, i trasporti, i mercati, i comuni, le scuole, le parrocchie, i cimiteri, gli uffici funzionano. Dietro ogni cosa che funziona c’è il popolo, che nessuno può conteggiare, di coloro che rimangono al proprio posto.

Non pretendono di fare notizia, non cercano occasioni per esibirsi in pubblico, non si aspettano riconoscimenti: stanno al proprio posto. Sono infastiditi dalle chiacchiere, non riescono a capire come ci sia gente che ha tanto tempo per discutere, litigare, ripetere banalità. Rimangono dove sono e perciò la società continua a funzionare. Nei disagi e nelle complicazioni, con attenzione e prudenza, restano lì.

Voglio dunque fare l’elogio di quelli che restano al loro posto e, secondo le loro responsabilità fanno funzionare il mondo e guardano avanti.

In questa occasione, voglio ringraziare in particolare tutti gli operatori sanitari e socioassistenziali che con la loro competenza e dedizione affrontano la pandemia in prima fila; voglio ringraziare i responsabili delle istituzioni, quelli che restano al loro posto, nei municipi, nelle caserme, nei tribunali e nelle carceri, nelle scuole, nei tanti negozi e servizi che con il loro funzionamento garantiscono la tenuta dei legami di vicinato. È facile criticare, è facile entrare in polemica per difendersi, ci possono essere errori e scelte discutibili. Ma io voglio esprimere la mia gratitudine e riconoscere la fortezza, la serietà, l’onestà di chi resta al suo posto e fa funzionare il mondo, anche quando tutto è sconvolto e complicato.

E anch’io, per quello che posso e secondo le mie responsabilità, rimango al mio posto e, imitando Geremia, ho deciso di comprare un campo, cioè di seminare speranza.

i – visione

Non si parla più della terra promessa. Non si parla più di nessun paradiso, né in cielo né in terra. Il terzo millennio, a quanto pare, si lascia alle spalle le utopie, le ideologie e la religione.

 

  1. L’individualismo: tra presunzione e fallimento

L’arroganza dell’individualismo si impone come un fattore di frantumazione. Questo “io”, così fragile e precario, si persuade di essere originale solo perché non va d’accordo con nessuno, vive con insofferenza le regole e le situazioni perché non è in pace con se stesso, circoscrive il mondo a quello che vede e quindi esclude il futuro e recide le radici del passato, si lascia guidare dal suo desiderio e dal suo sentire, perciò ignora l’amore. L’individualismo si rivela una forma di presunzione rovinosa: la comunicazione diventa impossibile perché ciascuno parla una lingua diversa, la convivenza diventa impraticabile perché l’ideale appare la solitudine, l’educazione si rivela insopportabile perché l’insofferenza prevale sulla gratitudine.

Ma i mesi della pandemia sono stati e sono una dura lezione per la gente e hanno decretato il fallimento dell’“io” e dell’individualismo. A ragione pa-pa Francesco ha ricordato che siamo tutti sulla stessa barca e ci si può salvare solo insieme (27 marzo 2020); il tempo presente ci sta facendo imparare che siamo tutti necessari gli uni agli altri, anche se siamo fragili e vulnerabili.

Si deve anche dire che nei mesi della pandemia è risultata evidente la parzialità di quelle analisi che conducevano alla tirannide universale dell’“io”. La vita ha potuto continuare perché la solidarietà si è rivelata più normale e abituale dell’egoismo, il senso del dovere si è rivelato più convincente del capriccio, la compassione si è rivelata più profondamente radicata dell’indifferenza, Dio si è rivelato più vero dell’“io”. Per affrontare l’emergenza spirituale riceviamo uno sguardo più semplice per riconoscere volti e opere che sono promesse e trovare ancora la semplicità e la determinazione della fiducia.

Da questa resistenza operosa e generosa che ha consentito di continuare a vivere e a far funzionare la società, da questo tessuto di rapporti solidali, da questo senso del dovere che ha indotto molti a forme anche eroiche di professionalità, da questa generosità offerta con naturalezza e discrezione traggo il titolo e l’intenzione del discorso alla città di quest’anno. Il discorso, infatti, si intitola Tocca a noi, tutti insieme: adesso tocca a noi, tocca ancora a noi, sempre. Tocca a noi, non nel senso che abbiamo la presunzione di occupare tutta la scena, di imporci come maestri che devono indottrinare altri, di prenderci momenti di potere o di gloria. Tocca a noi, piuttosto, nel senso di un dovere da compiere, di un servizio da rendere, di un contributo da offrire con discrezione e rispetto, di intraprendere un cammino che nessuno può compiere al nostro posto. Un cammino che siamo chiamati a percorrere insieme.

  1. Nostalgia o responsabilità di una “visione”

Tocca a noi apprezzare come realistico, desiderabile e doveroso vivere insieme, con rapporti di buon vicinato: tocca a noi tutti contribuire, secondo le responsabilità e le possibilità di ciascuno, a costruire quella trama di rapporti che fanno funzionare il mondo e camminare come popolo verso il futuro.

Nella sensibilità cristiana che intende la vita come vocazione a dare gloria a Dio nel servizio dei fratelli, questa persuasione è radicata e alla radice stessa della fede come risposta: “Eccomi, eccoci! Tocca a noi!”. Tocca a noi rispondere al dono di Dio, al dono della vita; ciascuno con i propri talenti e confidando nell’aiuto del Signore. Tocca a noi incoraggiare chi mette mano all’impresa e ne fa programma di governo, di organizzazione, di investimento.

Per dare concretezza alle buone intenzioni è necessario procedere per un cammino condiviso, riconoscere un fondamento comune, in altre parole avere una “visione”. Papa Francesco ce lo ha richiamato con incisiva chiarezza nella sua ultima enciclica Fratelli tutti.

L’elaborazione di una piattaforma programmatica è indispensabile, ma è un fondamento troppo fragile. L’equilibrismo che vuole conciliare i diversi interessi e le aspettative delle molteplici presenze della società conduce a compromessi precari, ad alleanze temporanee, a collaborazioni calcolate. Sono i legittimi processi dell’economia, della politica, della finanza.

Quello che può dare fondamento a una società, anche nel mutare dei suoi governi, quello che può dare motivazione a una economia, anche nelle diverse congiunture, quello che può mantenere l’identità di un popolo, anche nella molteplicità delle sue componenti, è la visione condivisa, una interpretazione pregiudiziale della storia, del presente, del futuro. In un certo senso è quel “sognare insieme” che rende partecipi di un pellegrinaggio convincente. Trovo ispirazione in quello che alcuni anni fa, proprio da questo stesso ambone, ci insegnava il cardinale Martini: per entrare nel nuovo millennio che ora abitiamo non si può non condividere un sogno (cfr. C.M. Martini, Alla fine del Millennio, lasciateci sognare).

L’attualità dell’auspicio, o del riconoscimento, di una visione comune si declina nel nostro tempo con tratti particolari. Abbiamo imparato che l’ideologia non va bene: ha prodotto le peggiori stragi della storia. L’individualismo non va bene: ha inaridito la voglia di vivere e dare vita e porta l’umanità verso l’estinzione. Il neoliberismo non va bene: ha creato disuguaglianze insopportabili.

Del resto, forse si può anche dire che all’umanesimo lombardo questi princìpi rovinosi non sono congeniali. Certo abbiamo importato anche l’ideologia, anche l’individualismo, anche il neoliberismo, ma senza mai sentirli veramente nostri.

Per questo si può dire che tocca a noi recuperare le nostre radici, essere fieri della nostra identità originale e proporre una visione comune. Tocca a noi, in coerenza con la nostra cultura, elaborare una visione comune con i tratti di quella sapienza popolare, di quel pragmatismo operoso, di quel senso del limite e quella consapevolezza di responsabilità che sono alieni da ogni fanatismo, da ogni rassegnazione, da ogni conformismo ottuso, capaci di realismo, di serietà e onestà intellettuale, di senso dell’umorismo, di apertura verso l’altro e verso l’inedito. Tocca a noi, devoti al nostro patrono sant’Ambrogio, farci avanti, come è toccato a lui entrare in una Chiesa segnata da conflitti e confusioni, per dare volto all’umanesimo ambrosiano.

  1. Dare volto a percorsi condivisi

Come sarà possibile dare volto a una visione condivisa che non sia violenta come una ideologia o precaria come un compromesso?

L’ingresso: l’umiltà

L’esperienza drammatica della pandemia ci ha reso più consapevoli della fragilità dell’umanità, più mendicanti di solidarietà, più sospettosi verso discorsi generali e giudizi perentori, più insicuri e paurosi. Insomma, forse, più umili.

La sapienza biblica ripete con insistenza che «principio della sapienza è temere il Signore» (Sir 1,14). Il timore del Signore è l’atteggiamento di chi avverte i suoi limiti ma non se ne abbatte, percepisce la sproporzione tra l’immensità del tutto e dei suoi enigmi e la propria capacità di conoscere e riconoscere un senso. Non si rassegna però allo smarrimento, si apre invece allo stupore e invoca una rivelazione.

Il riferimento a Dio è cancellato da gran parte della cultura occidentale. Mi sembra che l’esito di questa censura impoverisca enormemente il pensiero e cancelli il fondamento della speranza. Qui sta la radice antica dell’emergenza spirituale. Dio non ha bisogno del nostro permesso per esistere. Noi, invece, senza la fiducia e il timore del Signore, siamo indotti a pensare di esistere per morire. Il dio che viene escluso è spesso una maschera o una fantasia: Dio non lo ha mai visto nessuno, il Figlio ce lo ha rivelato. Se impariamo da Gesù potremo comprendere meglio che cosa significhi “timore del Signore” per non scambiarlo con la paura di fronte a un abisso e viverlo, invece, come desiderio di essere istruiti sul senso della nostra vita, “poca e misteriosa vita” («Tu, poca, misteriosa vita, che posso dire di te… Ci sei, non ci sei più, una nube, un vento, un profumo», G. Bufalino, Argo il cieco, 206).

Il timore del Signore riceve in altre tradizioni altri nomi e abita anche nella nostra cultura come consapevolezza del limite e insieme instancabile audacia della ricerca.

Un patrimonio irrinunciabile

Siamo riconoscenti alle generazioni che hanno scritto la storia da cui veniamo e non vogliamo né possiamo recidere le nostre radici. Insieme siamo consapevoli delle vicende terribili e degli errori catastrofici e non vogliamo ripeterli.

La storia passata e la situazione presente rendono possibile mettere in evidenza i tratti fondamentali di quella visione che può ispirare il nostro cammino comune.

 

La famiglia è la cellula che genera la società e il suo futuro. Penso innanzitutto alla famiglia fondata sul matrimonio, con un legame stabile; i genitori si impegnano a costruire un futuro insieme e a contribuire così al bene di tutta la società. Senza legami stabili non c’è futuro. La centralità della famiglia è la condizione per il benessere di tutti. Quando la famiglia è malata tutta la società è malata. La famiglia è affidata a coloro che la compongono: ne hanno la responsabilità. È però necessario che una comunità, una società che siano persuase dell’importanza decisiva della famiglia si facciano carico di creare le condizioni migliori per renderne, per quanto possibile, serena la vita. Intorno a questo centro tutte le istituzioni sono chiamate a sostenere gli aspetti generativi, le responsabilità educative, le problematiche sanitarie e assistenziali, le condizioni lavorative, l’attenzione alle varie fasce di età.

La famiglia per sua natura non è ripiegata su di sé ma è generativa. La nascita di un figlio esprime fiducia nella vita ed è segno di speranza. Occorre, in un percorso condiviso, favorire l’amore alla vita nascente e garantire per tutte le famiglie le condizioni di un itinerario educativo completo per i figli.

Non si può ignorare che in questo tempo molte persone sono sole, non hanno avuto, non hanno, non hanno voluto o potuto costruire una famiglia. Ma per il bene delle persone e della società nessuno deve essere abbandonato e per tutti ci deve essere un’appartenenza che definisca l’identità delle persone e offra a tutti un appiglio a cui aggrapparsi nel naufragio. Una visione che abbia al centro la famiglia non propone una famiglia ideale astratta dalla storia drammatica, non immagina una famiglia isolata, soddisfatta di sé, che chiude il mondo fuori dalla porta di casa. La centralità della famiglia considera che tutti sono figli, tutti sono chiamati a essere fratelli, tutti devono sapere che c’è una porta alla quale si può bussare. Neppure chi ha scelto di vivere solo deve essere abbandonato. Neppure chi vive di rapporti spezzati deve essere escluso.

La vocazione alla fraternità tra le persone e all’amicizia tra i popoli è la visione alla quale papa Francesco ha dato il contributo più articolato e stimolante con l’enciclica Fratelli tutti. Per tessere e custodire la trama di rapporti che dà concretezza alla fraternità universale è indispensabile il riconoscimento della dignità di ogni persona e del diritto di ciascuno a una vita degna (cfr. FT 107). In questo quadro si trova la motivazione per diventare costruttori di pace e contrastare le spinte disgregatrici che tendono a contrapporre le persone, ad alimentare i conflitti, a conculcare i diritti dei più deboli. In questo quadro si delinea una speranza per il pianeta che abbiamo la grazia di abitare. In questo quadro va collocata la laboriosità delle tante azioni di carità anche di questi giorni: non un provvedimento momentaneo per contenere un’emergenza sociale che avanza, quanto piuttosto la volontà di dare concretezza e visibilità alla rete di fraternità che ci unisce come fratelli e sorelle.

Il complesso e polimorfo fenomeno della globalizzazione deve essere corretto per non consentire a una dinamica planetaria di ridursi a una logica di mercato determinata dai prezzi invece che dai valori, a una gestione dell’informazione finalizzata alla manipolazione, a una forma di colonialismo economico e culturale che mortifica e seduce l’umanità. Solo la cultura dell’incontro (cfr. FT 215-221) può consentire di propiziare la possibilità che le diverse culture possano fecondarsi a vicenda. Solo il riconoscimento condiviso e una reale volontà di collaborazione tra le realtà internazionali esistenti (inclusa la capacità di dotarle dei poteri e delle energie di intervento che il mondo attuale richiede) rende praticabile questo percorso (cfr. FT 170-175).

Autorizzati ad avere fiducia

Di fronte all’impresa di “aggiustare il mondo” gli uomini e le donne di questo tempo e di questa terra sono autorizzati ad avere fiducia. La nostra storia con i suoi splendori e le sue tragedie, la nostra tradizione culturale, le acquisizioni della scienza e della tecnologia, la nostra capacità di stabilire relazioni, di intraprendenza, di efficienza, di pazienza, di organizzazione ci danno buone ragioni per ritenere ingiustificato l’atteggiamento rinunciatario che talora si diffonde e spegne la voglia di vivere e di dare vita, di resistere e di osare, di sognare e farsi avanti per le responsabilità.

La persuasione che la vita sia una vocazione e che chiami alla responsabilità è caratteristica della nostra cultura, per cui abbiamo buone ragioni per avere stima di noi stessi e alimentare la convinzione che tocca a noi, a noi tutti, dare a ognuno, ma specialmente ai giovani, la forza per resistere alla tentazione di accomodarsi nel presente, nel precario, nel vivere la vita come un giocattolo che poi si butta via.

ii – condivisione

L’interpretazione della vita e della società come promettenti per la libertà è una visione che diventa speranza se è “sogno condiviso”. Il senso di appartenenza alla città, al popolo, è alimentato dalla condivisione di quello che tiene uniti e si rivela capace di ospitare le differenze, le singolarità, i punti di vista e le sensibilità.

Il sogno esprime la ricchezza della nostra immaginazione a servizio del desiderio di bene e di amore che non possono mai mancare in una convivenza civile. Condividere un sogno è sempre anche condividere i desideri che muovono le persone a lavorare insieme in percorsi comuni.

La condivisione definisce la terra su cui appoggiare i piedi e tracciare il cammino verso il futuro: la terra c’è e la vita merita di essere vissuta, la famiglia merita di essere sostenuta, la fraternità tra le persone e tra i popoli è la condizione per la sopravvivenza del pianeta, e noi, generazione di questo tempo, siamo in grado di pensare, di costruire, di contribuire a scrivere una storia migliore. Perciò tocca a noi!

La mia fiducia è talora considerata una ingenuità. Assistiamo troppo spesso a discussioni che sono battibecchi deprimenti, scontri verbali scomposti, polemiche arrabbiate. Si deve dire che lo spettacolo è piuttosto squallido. Ma è solo spettacolo. La gente pratica un altro stile, è presa da altri pensieri. La gente è seria e si dedica alle cose serie. Perciò siamo in grado di raccogliere le sfide e di condividere il sogno. E dunque tocca a noi!

Con stile modesto

Lo stile saggio che i tempi richiedono è caratterizzato dalla modestia. La visione condivisa non è una ricetta, non è un sistema in cui tutto è al suo posto, non è una carta di intenti come un proclama retorico, non è una prescrizione autoritaria. La modestia è la consapevolezza del limite. Non tutto è chiaro. Nessuno può presumere d’essere maestro e di considerare gli altri scolari da indottrinare. Questo è tempo di costruzione paziente, non di opere compiute. È tempo per bonificare un po’ di terra e seminare: quel pezzetto di terra che tocca a ogni famiglia, a ogni persona. Non ci sono opere perfette, piuttosto tentativi. Eppure vale la pena. Eppure l’opera ben fatta è già premio.

Si devono aiutare le famiglie perché abbiano condizioni di vita degne, fare in modo che possano avere una casa, un lavoro, l’istruzione per i figli e cure adeguate. Quello che è possibile. Non tutto ciò che è desiderabile è possibile. Si devono aiutare le famiglie e le persone: non ci sono famiglie o persone perfette. Sono come sono. E così come sono, però, vanno bene per vivere e per contribuire all’impresa comune. Potrebbero essere migliori, è vero. Ma chi può giudicare? Dov’è il giudice? Così come sono, possono scrivere una storia migliore.

L’impresa di scrivere la storia affronta in particolare due compiti irrinunciabili, complicati, drammatici. La condivisione, infatti, non è un automatismo, non si dà per forza di natura. È un processo complesso e non lineare, che chiede lavoro e impegno costante, confronti e verifiche. D’altra parte, senza condividere percorsi comuni, non si può scrivere insieme nessuna storia.

  1. Il compito irrinunciabile dell’educazione

Tocca agli adulti la responsabilità di consegnare alle giovani generazioni la visione da cui può partire il futuro. Poi le giovani generazioni daranno alla visione un colore nuovo, un nome inedito.

Ma il compito educativo è essenziale perché non ci sia un popolo smarrito e vagabondo che non sa il nome né il senso delle cose e crede che distruggere o costruire, fare il bene o fare il male, dare la vita o toglierla siano equivalenti.

L’educazione è responsabilità dei genitori. I genitori perfetti non esistono e i genitori di oggi devono reagire al sospetto di non essere all’altezza del compito educativo, di non sapere che cosa dire a proposito della vita e del suo senso. Gli adulti non sono autorizzati dai loro fallimenti a sottrarsi al compito educativo. Portano delle ferite, hanno sbagliato in questo e in quello: è vero. Però, così come sono, vanno bene per dire del senso della vita e dei valori per cui merita vivere. Hanno imparato dai loro errori. Possono anche chiedere perdono, possono correggersi e talora anche rimediare. Non possono rinunciare a essere uomini e donne che attestano come e perché vale la pena di vivere bene, anche se per qualche aspetto hanno vissuto male.

Forse i figli ascolteranno, forse no; forse faranno subito tesoro di una testimonianza modesta e convinta, forse scopriranno il tesoro quando saranno genitori: chi lo sa? Ma la reticenza, la rinuncia, il blocco per un complesso di colpa non servono né ai figli né ai genitori. Tocca a noi adulti, tocca a voi genitori.

Il compito educativo della famiglia non è tale per cui la famiglia sia sufficiente. Per questo è necessaria l’alleanza. L’affollamento istituzionale intorno alle giovani generazioni induce a tentazioni pericolose. C’è infatti la tentazione che spinge i genitori alla delega: si convincono che per l’istruzione c’è la scuola, per la preparazione ai sacramenti c’è la parrocchia, per l’attività sportiva c’è la società sportiva, per l’informazione c’è la rete. Quindi ai genitori rimane da pensare al vitto, all’alloggio, alla salute. Che cosa facciano le altre istituzioni, di che cosa si riempia la mente, il cuore, la fantasia dei figli sono questioni che i genitori sono tentati di scaricare su altri. L’esperienza di questi mesi di pandemia ha pesato molto sulle famiglie, soprattutto quando i figli sono stati costretti a stare in casa senza poter andare a scuola, praticare lo sport, partecipare nel modo abituale alla vita della comunità parrocchiale, dell’oratorio e delle diverse forme di aggregazione. I genitori hanno esercitato in un modo ancora più faticoso le loro responsabilità. Un pensiero particolare lo voglio dedicare a quelle famiglie che in questi mesi si sono trovate sole nel gestire una situazione di disabilità: alcune testimonianze raccolte mi hanno reso in modo plastico le fatiche e le sfide che sono state chiamate ad affrontare. È toccato a loro, e quindi a maggior ragione possiamo dire questa sera: tocca a noi!

I genitori reagiscono alla tentazione della delega e chiedono alle istituzioni di non sequestrare i loro figli per renderli clienti, consumatori, ossessionati dalle prestazioni sportive o dai risultati scolastici. Le famiglie e le istituzioni e le organizzazioni che coinvolgono i minori sono chiamate a essere alleate perché l’impresa comune è scrivere insieme il futuro. L’alleanza è per riconoscere alla famiglia la libertà di educare i suoi figli e insieme per sostenere un’opera educativa che sia un contributo al bene comune. L’educazione per sua natura fa riferimento alla sussidiarietà, alla capacità di dare vita a patti tra le diverse agenzie educative, valorizzando le autonomie scolastiche e la capacità delle famiglie e dei corpi intermedi di dare vita a diverse esperienze educative e di formazione. La tradizione delle scuole paritarie deve essere, in questa prospettiva, valorizzata come contributo all’esperienza educativa di tutti. Dobbiamo impegnarci per una esperienza educativa dagli orizzonti ampi, che non si riduca mai alla mera istruzione, alla comunicazione di nozioni, oppure a informazione. L’educazione è sempre offerta di visione della vita, di un senso della realtà, comunicazione di una ipotesi positiva sul senso dell’esistenza. L’avventura dell’educazione chiede sempre dialogo profondo tra le generazioni, che in tal modo si arricchiscono vicendevolmente.

L’impresa educativa è ardua e rischiosa. Non è al riparo dal fallimento. Ma l’alleanza delle istituzioni non può ignorare i fallimenti e rassegnarsi a considerarli scarti irrecuperabili. Troppi ragazzi e ragazze sono vittime degli errori educativi e anche di se stessi. Troppi ragazzi e ragazze si rovinano la giovinezza nella rabbia o nella disperazione, nelle dipendenze e nello squallore.

I genitori sono dentro la tragedia con i loro sensi di colpa e con la loro rassegnazione. Chi tenderà la mano ai genitori e ai figli? Chi offrirà una speranza, una motivazione ad assumere la vita come vocazione a un sogno condiviso? Si può riconoscere la complessità del fenomeno, ma non sarà possibile ignorarlo, rassegnarsi, difendersi con l’indifferenza.

Ecco: tocca a noi! Tocca sempre a noi. Tocca a tutti noi, insieme!

 

  1. La costruzione della comunità plurale

Abitano in questa stessa terra comunità e persone originarie di ogni parte del pianeta. La registrazione delle presenze, puntualmente aggiornata da diversi osservatori, non è mai neutra: che cosa si intende fare? A che cosa si vuol far pensare?

La presenza di etnie, culture e lingue, tradizioni religiose, sensibilità politiche si può osservare per incrementare la paura, per reclutare forza lavoro, per predisporre percorsi di integrazione, per suggerire politiche di difesa contro l’invasione, per convincere a definire confini di ghetti ove l’uniformità è rassicurante.

Chi coltiva la persuasione che l’umanità sia una vocazione alla fraternità universale sente la responsabilità di chiamare tutti a configurare la visione condivisa che possa motivare il cammino comune. Non ci si può rassegnare a vivere la città come una babilonia di mondi che non comunicano, che non vogliono o non possono comunicare. Neppure si può immaginare un programma di integrazione forzata che imponga l’assimilazione di tutti a un modello anacronistico di città, a un regime di omologazione. È una forma di ottusità quella di immaginare il fenomeno migratorio come una emergenza temporanea da risolvere con qualche forma di assistenza o di respingimento.

La città di Milano e altri comuni di questa terra saranno chiamati nei prossimi mesi a dibattere pubblicamente del futuro prossimo, a immaginarlo e a costruirlo, in occasione delle elezioni dei sindaci e degli organismi dell’amministrazione locale. Abbiamo la responsabilità di disegnare il futuro delle nostre città e della nostra società. Abbiamo la responsabilità di scegliere se essere vittime di una globalizzazione delle paure e degli scarti o protagonisti nell’edificazione di una comunità plurale che pratichi la cultura dell’incontro (cfr. FT 215ss). Una nuova cultura, che si configuri come disposizione all’apprezzamento di tutte le culture e come pratica del dialogo tra persone, presuppone la persuasione di appartenere alla stessa umanità, di potersi chiamare fratelli non per un esercizio retorico ma per rispondere a una vocazione.

In questo percorso non ci sono popoli civili e popoli incivili, non ci sono culture che devono sempre insegnare e culture che devono sempre subire o mendicare. Convergono invece fratelli e sorelle che si arricchiscono per uno scambio di doni e per un riconoscimento di limiti da superare, di debiti da pagare, di abitudini indegne da correggere. «In conclusione, fratelli, quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8).

La costruzione della comunità plurale richiede occasioni di incontro, tempo e attenzione perché tutti possano prendere la parola, tutti possano essere rappresentati, tutti possano vedere riconosciuti i loro diritti e tutti siano tenuti a compiere i loro doveri.

iii – decisione: “tocca a noi”

La nostra società complessa rischia di essere vittima della sua complessità. Come in una specie di babilonia confusa, tutti possono parlare e tutti possono essere ignorati. Ci si difende dallo smarrimento con l’indifferenza. Siamo invece chiamati e siamo capaci di affrontare l’emergenza spirituale con un fiducioso farci avanti: tocca a noi, tocca a noi tutti insieme.

  1. Non ci sono scorciatoie

Si dovrebbe trovare una via semplice, persuasiva, democratica per decidere. Infatti, la suscettibilità litigiosa, il puntiglio di difendere il punto di vista e l’interesse particolare, la complicità di una burocrazia cavillosa rendono i procedimenti decisionali di una lentezza scoraggiante e si finisce per compiere sforzi sproporzionati per produrre minuzie, aggiustamenti inadeguati, compromessi insoddisfacenti.

Non esistono però scorciatoie. L’autoritarismo decisionista, la seduzione di personaggi carismatici, le scelte “facili” del populismo non rispettano la dignità delle persone e spesso conducono a disastri. Gli uomini e le donne di buona volontà sono chiamati ai percorsi lunghi della formazione, della riflessione, del dialogo costruttivo, della tessitura di alleanze convincenti.

Non mancano esempi incoraggianti in ogni settore della nostra società. Una conoscenza più attenta di tutte le forme di associazionismo di categorie, di iniziative di solidarietà, tutte le forme di collaborazione tra istituzioni culturali, sociali, sindacali, politiche, scolastiche, finanziarie, l’impegno delle istituzioni pubbliche per coordinare forze e risorse presenti sul territorio conoscono procedure decisionali che producono buoni frutti. Lo stesso dialogo fraterno tra confessioni e Chiese cristiane è un esempio promettente, come pure gli sforzi per creare relazioni di conoscenza, di stima e di collaborazione tra le religioni, ormai presenti in modo plurale, come è ben visibile anche a Milano.

Mi faccio voce della comunità della Chiesa ambrosiana per dichiarare la disponibilità a partecipare a tutti i livelli ai processi che si ispirano alla visione che diventa sogno condiviso e può dare forma alla comunità plurale.

La comunità cattolica ambrosiana è composta da uomini e donne che sentono iscritta nella loro identità la persuasione che “tocca a noi!”, perciò è in cammino. E in questo periodo ha preso decisioni e intrapreso cammini. Posso accennare a questi “lavori in corso” nella comunità diocesana per segnalare un contributo che vogliamo dare all’alleanza e un territorio su cui i cattolici possono incontrarsi con le istituzioni e con tutti gli uomini e le donne di buona volontà.

  1. Stiamo riorganizzando la presenza della Chiesa ambrosiana sul territorio

È in atto un ripensamento e un rilancio dell’articolazione della presenza della Chiesa sul territorio. Si vorrebbe creare e rilanciare la possibilità e la pratica delle alleanze necessarie tra tutte le espressioni della Chiesa: le parrocchie, le associazioni, i movimenti, le comunità etniche, le organizzazioni di solidarietà e di assistenza, gli istituti di vita consacrata, il personale che opera nella scuola, nelle cappellanie ospedaliere e universitarie, nei variegati mondi del lavoro e della cultura.

Sempre incombe il rischio di elaborare strategie e affaticarci in organizzazioni. L’intenzione è invece quella di affrontare l’emergenza spirituale e sociale, ardenti per il fuoco che arde in noi per opera dello Spirito Santo e pazienti per quella sapienza che viene dall’alto che ci consente di sentirci a nostro agio nella storia. Queste alleanze a livello locale sono necessarie per attuare gli orientamenti emersi nel “sinodo minore” Chiesa dalle genti. Non abbiamo trovato la soluzione, non abbiamo ancora visto realizzazioni esemplari, incontriamo spesso scetticismo e lentezze. Ma siamo persuasi che sia una via da percorrere con tenacia e intelligenza perché tutti i cattolici, ciascuno con la sua età e la sua vocazione, con i suoi compiti e la sua professione, con la sua origine e cultura, possano sentire la Chiesa ambrosiana come la loro Chiesa.

Questa esperienza ecclesiale può essere uno stimolo per percorsi analoghi anche nella società civile e può favorire un dialogo fecondo e fattive sinergie tra la comunità cattolica e le amministrazioni e istituzioni pubbliche. Del resto nelle comunità locali il convergere di cattolici caratterizzati dalla varietà delle vocazioni, impegnati in differenti responsabilità sociali, provenienti da diverse culture e Paesi è già una realtà che rivela aspetti promettenti, per quanto non privi di limiti e di fatiche.

  1. Crediamo nell’alleanza educativa

La collaborazione con le famiglie per la responsabilità educativa è profondamente radicata nella comunità ambrosiana. Neppure la comunità cristiana è esente dal rischio di giustapporre iniziative e proposte che risultano essere per le famiglie ulteriori adempimenti invece che supporti alla loro opera educativa. Perciò si è formulato il proposito di riconoscere e promuovere comunità educanti, cioè convergenze di tutte le proposte educative rivolte ai ragazzi, agli adolescenti e ai giovani, per condividere la visione e dare concretezza ai valori che ispirano la sollecitudine educativa della comunità cristiana.

Già sono presenti e operanti a livello territoriale espressioni educative della comunità cristiana che cercano e realizzano alleanze: gli oratori, le associazioni, i movimenti, la rete dei consultori familiari, il tavolo delle scuole paritarie, l’articolazione territoriale delle iniziative caritative e sociali grazie alla regia di Caritas ambrosiana, le comunità di recupero per problemi di dipendenza, eccetera.

L’elenco dei tentativi compiuti non è per esibire risultati, ma per riconoscere l’insufficienza. Sperimentiamo l’inadeguatezza delle risorse disponibili rispetto alla gravità della emergenza educativa. È quindi urgente una forma di collaborazione più intensa, più attenta, tra istituzioni pubbliche ed ecclesiali, tra tutti gli uomini e le donne di buona volontà, tra fedeli di ogni religione.

In questo orizzonte è bene non dimenticare mai il contributo che le diverse religioni e confessioni cristiane sono chiamate a dare per costruire percorsi condivisi, per promuovere la fraternità tra tutte le persone e l’amicizia sociale (cfr. FT 271-285); questo sia nel mantenere buone relazioni tra persone che appartengono a diverse tradizioni religiose e spirituali, sia nel richiamare tutti a tenere l’orizzonte della vita sempre aperto all’inedito e al mistero di Dio. Quando diciamo che ora “tocca a noi, tutti insieme” indichiamo una fraternità universale non autoreferente, ma sempre aperta agli altri e all’Altro, alla Trascendenza che non sostituisce, ma sostiene e rafforza la nostra responsabilità condivisa.

In questa occasione della festa del patrono della Chiesa ambrosiana, della città e della regione mi faccio voce della comunità cattolica per dire la nostra disponibilità e il nostro appello: sogniamo insieme, condividiamo con tutti il nostro sogno e la nostra visione, decidiamo insieme.

Siamo alleati: questa terra, questa umanità ne hanno bisogno.

conclusione

In conclusione, voglio ringraziare, elogiare e incoraggiare quelli che si fanno avanti.

Quelli che si fanno avanti e dicono: “Eccomi! Tocca a me!”.

Voglio ringraziare coloro che si fanno avanti per gli incarichi istituzionali e ne assumono le responsabilità. Conoscono la complessità delle situazioni, sono consapevoli di non avere ricette e soluzioni per tutti i problemi, ma si mettono in gioco, con spirito di servizio. Si dicono: “Tocca a noi, eccoci!”.

Voglio ringraziare, elogiare e incoraggiare quelli che si fanno avanti. Sanno che, oltre a essere servi, saranno anche bersagli, talora di critiche fondate e costruttive, talora di polemiche ingenerose, aggressive e offensive. Ma si fanno avanti, perché sono convinti: “Tocca a noi!”.

Voglio ringraziare, elogiare e incoraggiare i sindaci, le forze dell’ordine, gli operatori dei servizi pubblici che nel momento dell’emergenza e nella vita ordinaria, di fronte ai disastri e di fronte ai problemi quotidiani si fanno avanti con la naturalezza di chi dice: “Tocca a noi!”.

Voglio anche ringraziare, elogiare e incoraggiare coloro che comprendono che c’è un momento per farsi da parte, che non si ritengono inamovibili né insostituibili e prendono la decisione saggia di lasciare il posto ad altri, sempre con l’animo di chi dice: “Adesso tocca a me farmi da parte!”.

Voglio ringraziare, elogiare e incoraggiare quelli che per la loro situazione familiare, personale, professionale non possono farsi avanti, non possono fare altro che quello che già fanno, ma si alzano ogni mattina e senza sbuffare, senza lamentarsi, si mettono all’opera e si dicono: “Tocca a noi! Tocca a noi assistere i malati che abbiamo in casa, curare i malati ricoverati, visitare i malati a casa, fare lezione, far funzionare l’ufficio, i trasporti, insomma la città. Tocca a noi!”.

Voglio ringraziare, elogiare e incoraggiare quelli che si fanno avanti per le opere di volontariato e di fronte alla miseria, di fronte all’umanità ferita, desolata, abbandonata si mettono a servizio e dicono: “Eccoci, tocca a noi!”.

Voglio ringraziare tutti voi, fratelli e sorelle, che siete abitati da una inquietudine di fronte al fratello, alla sorella che ha bisogno di aiuto e che voi non riuscite ad aiutare. Vorreste dire, come il buon samaritano che prova profonda compassione per l’uomo ferito in cui si imbatte: “Tocca a me!”, e finite la giornata con un senso di inadempienza e di impotenza. Anche l’inquietudine è un modo per dire: “Tocca a me! Che cosa posso fare?”. Prima o poi si aprono strade.

Voglio farmi avanti anch’io, insieme con tutti i fratelli e le sorelle di buona volontà, insieme con i preti e i diaconi, insieme con i consacrati e le consacrate, insieme con gli operatori delle istituzioni ecclesiali; vogliamo farci avanti per dichiarare di fronte alla città, di fronte alla gente dei nostri paesi: “Eccoci! Tocca a noi!”.

 

Redazione

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