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Il Presidente Mattarella alla conferenza internazionale per il 75° anniversario della NATO

(mi-lorenteggio.com) Roma, 15 aprile 2024 – Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è intervenuto all’apertura della conferenza “Nato at 75: Shaping a New Transatlantic Agenda, Security and Peace at a Time of Global Transformations for the Future”, che si è svolta nella caserma “Salvo d’Acquisto”.

Dopo il saluto dell’Amb. Riccardo Sessa, Presidente della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI), il Presidente Mattarella ha rivolto un discorso ai presenti.

Si è collegata, poi, in videoconferenza, Oleksandra Matviichuk, Premio Nobel per la Pace e responsabile dell’ONG “Centro per le Libertà Civili” di Kiev.

La conferenza è organizzata a Roma dal 15 al 16 aprile dalla SIOI, in collaborazione con la Divisione Diplomazia Pubblica del Segretariato della NATO.

L’INTERVENTO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Rivolgo un saluto al Cardinale Tscherrig, Nunzio apostolico, al Presidente dell’Assemblea parlamentare della NATO, ai parlamentari presenti, al Capo di Stato maggiore della Difesa, al Segretario generale del Ministero degli Esteri, ai Capi di Forza armata presenti, particolarmente al Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri che ci ospita, ringraziandolo per l’accoglienza.

Naturalmente, un saluto molto cordiale a tutti i presenti.

Vorrei iniziare esprimendo apprezzamento per l’iniziativa della SIOI di promuovere questo Convegno, che invita a riflettere – in occasione del 75° anniversario del Trattato – sul valore della scelta atlantica, così piena di conseguenze per il nostro Paese.

Il trattato del 4 aprile del 1949 – come ricordava poc’anzi l’Ambasciatore Sessa, che ringrazio – avrebbe contribuito, infatti, alla identità politica della Repubblica quale è ancora oggi.

Quando si conclude una guerra e, per di più con le caratteristiche sanguinose del Secondo conflitto mondiale, il tema che si pone è “fare la pace” e, subito dopo, dar vita a un sistema di sicurezza collettiva efficace.

Era avvenuto così nel 1918 quando, sulla spinta del Presidente degli Stati Uniti, Wilson, e dei suoi 14 punti, si diede vita alla Società delle Nazioni, nell’aspirazione di superare il principio secondo il quale l’espressione di sovranità all’estero di uno Stato si esprimeva con l’uso della forza nei rapporti internazionali. Si giunse sino al tentativo del “Trattato di rinuncia alla guerra”, patrocinato dal Segretario di Stato degli Stati Uniti, Frank Kellog e dal Ministro degli Esteri francese, Aristide Briand, per un accordo bilaterale di non aggressione.

Stipulato nel 1928, vi aderirono sessantatré Stati, fra essi, accanto naturalmente a Stati Uniti e Francia, tra gli altri, la Germania, l’Italia, il Giappone, Paesi che pochi anni dopo furono all’origine del Secondo conflitto.

Nel 1945 la preoccupazione, dunque, era come assicurare la sicurezza di popoli e Paesi che erano stati travolti. Per non ripetere le vicende che seguirono la Prima guerra mondiale.

Convivevano due sensibilità: l’una, volta alla definizione di un foro internazionale tra gli Stati, facendo riferimento alla Dichiarazione del 1 gennaio 1942, portava a un percorso che si sarebbe saldato, in particolare, con la Carta di San Francisco, approvata – come ben sappiamo – il 25 aprile del 1945, e immaginava la creazione di strumenti permanenti di composizione dei conflitti.

L’altra, erede dell’Europa delle grandi potenze, immaginava di risolvere i problemi attraverso conferenze internazionali “una tantum” e guardava indietro, ad accordi bilaterali di autodifesa. Fu così con il Patto di Dunquerke tra Francia e Regno Unito, il 4 marzo del 1947, allargatosi poi, con il Trattato di Bruxelles, il 17 marzo 1948, ai Paesi del Benelux.

La ragione di questa esperienza era la sempiterna ombra della Germania. Questione che sarebbe presto tramontata.

Al centro della scena, invece, era, palesemente, il ruolo che si sarebbero apprestati a giocare gli Stati Uniti, nella contrapposizione che si delineava con l’Unione Sovietica e i suoi satelliti.                  

Si parla di scelta atlantica, di “atlantismo “e, dunque, non è inutile, fare riferimento al suo significato.

Dobbiamo allora guardare ai contenuti dell’incontro, nell’agosto del 1941 al largo dell’isola di Terranova, tra il Presidente Roosevelt e il Primo Ministro britannico Churchill (come sappiamo gli Usa non erano ancora entrati in guerra), in cui vennero definiti, nella loro dichiarazione comune, taluni principi.

Vediamoli sinteticamente: no a ingrandimenti territoriali a spese di altri; no a mutamenti territoriali che non rispettino voti liberamente espressi dai popoli interessati; diritto di tutti i popoli di scegliersi la forma di governo e restaurazione dei diritti sovrani e dell’autonomia di coloro che ne sono stati privati con la forza; accesso in condizioni di parità al commercio e alle materie prime del mondo; cooperazione economica fra tutti gli Stati per assicurare a tutti migliori condizioni di lavoro, progresso economico, sicurezza sociale; distruzione della tirannia nazista e garanzia di pace a tutti i popoli per vivere sicuri nei confini e liberi dalla paura e dal bisogno; libera circolazione nei mari e negli oceani; rinuncia all’impiego della forza.

Era la Carta Atlantica, alla quale, nella dichiarazione che vi faceva espresso rinvio, fecero riferimento i 26 Paesi che la sottoscrissero a Washington il 1 gennaio 1942 (fra essi l’Unione Sovietica).

Si coglie qui il senso della scelta che vide l’appena nata Repubblica Italiana aderire al Trattato dell’Atlantico del Nord, che quei temi e quegli impegni riprendeva.

Chi volesse porre a confronto quei principi con la nostra Carta costituzionale, non avrebbe difficoltà a riscontrare ampie consonanze.

Per apprezzare il valore di quella scelta è necessario considerare la condizione in cui l’Italia si trovava alla fine della guerra.

La Conferenza di pace di Parigi – attardata in antiche pratiche colpevoli di avere determinato, spesso, motivi di successiva ripresa delle ostilità – l’aveva esclusa da ogni circuito internazionale.

Non sarebbe stata ammessa al Trattato di Bruxelles, non era membro delle Nazioni Unite.

Si coglie bene, quindi, il senso del nobile discorso pronunciato da Alcide De Gasperi alla Conferenza di pace, il 10 agosto 1946 e il lavoro incessantemente compiuto di sensibilizzazione nei confronti degli Alleati.

La partecipazione alla Nato era, quindi, anzitutto una adesione da parte della Repubblica ai valori di libertà della Carta Atlantica e, insieme, una scelta essenziale di reingresso nella politica internazionale. Vi si affiancava una opzione pragmatica che guardava agli Stati Uniti, per il declino del ruolo mondiale dell’Europa, di cui il tramonto dell’influenza britannica e francese era il segnale.

Dopo la sottoscrizione del Trattato di pace, l’Italia contribuisce così alla definizione di strumenti per un nuovo sistema internazionale, nell’ambito di una architettura di sicurezza in grado di garantire il suo sviluppo economico e sociale nel contesto delle nazioni occidentali ed in raccordo con esse.

Fu il momento in cui prese corpo l’espressione “mondo libero”, a cui l’Italia sceglieva di appartenere.

Non avvenne senza dibattito. Lo ricordava poc’anzi l’Ambasciatore Sessa.

Avversari di De Gasperi furono soprattutto il comunismo e il nazionalismo.

Anche in politica estera si manifestava un momento “costituente” per la nuova Italia.

Raccoglieva sostenitori la posizione di neutralità, nell’articolazione bipolare di un contesto in cui il blocco sovietico manifestava ambizioni di espansione.

La realtà dei fatti ha mostrato la saggezza delle scelte guidate da De Gasperi e Sforza.

De Gasperi, nella discussione parlamentare relativa al Patto, ebbe a dire: “O accessione al Patto Atlantico, che in ogni caso esiste al di fuori di noi, o neutralità. La neutralità armata è impossibile per la nostra insufficienza finanziaria”. E si interrogava: “Chi ci aiuterebbe mai se posti innanzi all’invito di accedere a una solidarietà collettiva ci fossimo rifiutati egoisticamente di respingere ogni rischio comune?”

Nelle parole di De Gasperi la Nato nasceva dal “bisogno di sicurezza” e si basava “sull’integrazione dello sforzo nazionale nello sforzo collettivo”. Lo statista trentino chiariva così che quella decisione rispondeva all’esigenza di “difendere una patria più vasta” che fosse “visibile, solida e viva.”.

Quella patria visibile e politicamente viva – cui De Gasperi pensava e senza la quale la costruzione di un sistema di alleanze militari avrebbe avuto portata e senso ridotti – era il progetto europeo.

La nostra appartenenza al Patto atlantico assume dunque da subito una valenza ambiziosa e si lega a una prospettiva sovranazionale e ideale, coerente con i principi ispiratori contenuti nella Carta costituzionale.

È un approccio di cui si manifesta con chiarezza l’attualità, laddove stabilisce un legame, per così dire fondativo, fra progetto atlantico e sviluppo politico dell’Europa.

L’altro dato caratterizzante che si ricava da quella prima fase di nascita e consolidamento della Nato è la sua piena, organica integrazione in un sistema multilaterale di regole condivise e di principi che trovano il loro ancoraggio nella Carta delle Nazioni Unite e, in particolare, in quell’articolo 51 che sancisce il diritto intrinseco di tutti gli Stati all’autodifesa.

A questa vocazione l’Alleanza non è mai venuta meno, a dispetto della retorica bellicista russa tesa ad attribuirle inesistenti logiche aggressive ed espansionistiche.

La funzione deterrente dell’Alleanza Atlantica è stato elemento di garanzia della pace in Europa e, alle donne e agli uomini, civili e militari, di straordinaria professionalità e dedizione, che, in questi 75 anni, sono “stati” la Nato, presidiandone il perimetro di libertà, va rivolto un pensiero di apprezzamento e la riconoscenza della Repubblica, oltre che dei cittadini dei Paesi che compongono l’Alleanza.

Alla coalizione hanno ritenuto di aderire Paesi ai quali la dissoluzione dei regimi legati al Patto di Varsavia ha permesso libere decisioni.

Un processo, inquadrato nell’ambito dei risultati della Conferenza di Helsinki del 1975, che aveva permesso di guardare con ottimismo alla possibilità di dar vita ad un sistema sempre più inclusivo di sicurezza collettiva, lasciando alle spalle la cosiddetta “guerra fredda”.

La Carta di Parigi, adottata nel 1990, nell’ambito della Csce, aveva lasciato intendere che l’umanità potesse godere di un “dividendo della pace”, in grado di orientare spese e investimenti allo sviluppo e alla giustizia internazionali.

La guerra di aggressione lanciata dalla Federazione Russa contro l’Ucraina, la condizione di instabilità nel Mediterraneo allargato, hanno fatto, purtroppo, declinare quella stagione.

Oggi, i Paesi alleati nella Nato sono di fronte alla necessità di ribadire con forza la inaccettabilità di politiche del “fatto compiuto”.

Il valore dell’ordinamento internazionale è di impedire l’affermazione di politiche di potenza per cui Governi di uno Stato più forte possano ritenersi autorizzati ad annientare Paesi meno popolati e meno armati.

Nel dopoguerra, il percorso dell’Italia nella comunità internazionale è sempre stato orientato alla pace, lavorando per la causa europea a partire dalla Ced, operando nella Nato, nell’Onu.

Il Vertice dell’Alleanza di Washington del prossimo luglio sarà l’occasione per proseguire questi sforzi, con analisi e strategie adeguate alle nuove condizioni e sempre più sofisticate.

Dunque solidarietà. L’Italia partecipa a missioni di primo piano dirette a presidiare il fianco nord-orientale, nell’ambito di una rinnovata vitalità e forza di attrazione della Nato, testimoniata anche dalla recente adesione della Finlandia e della Svezia.

Viene, inoltre, richiesta la necessità di una capacità di lettura dei rischi e delle minacce – anche ibride e non convenzionali poste dalle condizioni internazionali – che non sia filtrata attraverso un unico prisma di interpretazione.

Non ci può essere separazione tra sicurezza del fianco nord e sicurezza del fianco sud dell’Alleanza.

Va colmato il deficit del progressivo venir meno dell’attenzione all’area mediterranea e medio-orientale: gli eventi in corso sono eloquenti.

Accanto all’Ucraina, la perdurante guerra di Gaza, i suoi riflessi nel Mar Rosso e in tutto il Medio Oriente – con i rischi di allargamento -, l’aggressione missilistica dell’Iran, la crisi nel Sahel, disegnano un ampio arco di instabilità che nel Mediterraneo trova il suo drammatico punto di convergenza, e chiamano l’Italia ad assolvere a un ruolo di stabilizzazione e difesa dei principi della convivenza internazionale.

Il comando tattico della missione Aspides nel Mar Rosso si inserisce in questo quadro.

Le minacce richiamate, accanto a quelle globali, hanno in comune un obiettivo: comprimere quel sistema multilaterale basato sul diritto internazionale, di cui la Nato è uno degli assi portanti.

Signore e Signori,

in un contesto caratterizzato da minacce di intensità straordinaria, anche l’Unione Europea è chiamata ad elevare il livello del suo impegno, e a farlo con urgenza.

È una riflessione che oggi si incentra sulla creazione finalmente di una difesa comune, dopo i tentativi senza risultati alla fine del secolo scorso.

A Helsinki, venticinque anni addietro, sembrava che questo obiettivo fosse a portata di mano. Il suo dissolvimento ha reso in questi anni, più volte, l’Unione mera spettatrice di avvenimenti di cui subiva gli effetti negativi.

Dotare l’Unione Europea di una autonomia strategica superiore consentirà alla Nato di essere più forte, proprio in ragione della complementarietà fra le due Organizzazioni, con il rafforzamento di uno dei suoi pilastri, oggi più fragile.

Più fragile perché – come è noto – il ridotto stato di coordinamento e integrazione produce limitate capacità pur a fronte di grandi impegni finanziari. Rimuovere questa condizione andrebbe a beneficio di tutti in un mondo irreversibilmente contrassegnato dal ruolo di grandi soggetti internazionali.

Signore e Signori,

vorrei concludere citando uno dei miei predecessori, del quale, pochi giorni fa, ricorreva l’anniversario della nascita.

Riferendosi all’Europa, nel 1954, il Presidente Einaudi ricordava che lo spettro delle decisioni per i Paesi del continente si riduceva a “l’esistere uniti o lo scomparire”.      

L’esperienza dell’Alleanza Atlantica ci conferma il valore di una storia che, in 75 anni, non ha mai tradito l’impegno di garanzia a beneficio dei 32 Paesi che ne fanno parte: uniti nella difesa della libertà e della democrazia.

Un valore che conferma l’importanza del multilateralismo fatto proprio dalla nostra Repubblica.

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